La prima patologia emersa dalla pandemia del COVID-19 e non ancora definita sotto moltissimi aspetti. Gli esperti la stanno studiando e stanno cercando le risposte per contrastarla. La situazione è in continua evoluzione.

Il 01 Luglio 2021, l’Istituto Superiore di Sanità ha diramato il Rapporto ISS COVID-19 n. 15/2021 “Indicazioni ad interim sui principi di gestione del Long-COVID” (leggi il rapporto completo) con l’intento di sintetizzare l’inquadramento di questa nuova condizione clinica e di fornire indicazioni generali per la sua presa in carico, in linea con le raccomandazioni fornite dall’OMS. A oggi non risultano aggiornamenti ufficiali da parte dell’Istituto Superiore di Sanità rispetto a tale rapporto.
Vediamo cos’è il Long COVID secondo quanto riportato nel rapporto dell’ISS
Il Long COVID è stata riconosciuta come un’entità clinica specifica riguardante un numero importante di persone già colpite dal virus, le cui manifestazioni cliniche non si esauriscono a distanza di poche settimane dalla fase acuta, ma invece si prolungano nel tempo con un complesso eterogeneo di manifestazioni cliniche subacute e croniche che precludono un pieno ritorno al precedente stato di salute. Questa persistenza di sintomi può riguardare soggetti di qualunque età e di diverse severità della fase acuta. L’ampiezza dello spettro sintomatologico è tale da rendere complessa la definizione del quadro clinico ed epidemiologico. L’impatto clinico è rilevante al punto di richiedere provvedimenti e stanziamenti appositi e la creazione di percorsi di diagnosi e assistenza basati su un approccio multidisciplinare.
Molteplici gli aspetti ancora da definire. Restano senza risposta numerosi interrogativi di ricerca; i dati a disposizione sono in relazione a popolazioni diverse, con tempi di osservazione differenti e con diversi approcci diagnostici sintomatologici e strumentali. Non è nota la fisiopatologia delle manifestazioni cliniche persistenti, la cui definizione avrebbe grande importanza sia per il trattamento dei sintomi sia per analizzare il ruolo dell’infezione virale, dell’infiammazione e della risposta immune in tutte le fasi della malattia. Non è definito il potenziale ruolo della vaccinazione nel condizionare la comparsa e la gravità delle forme subacute e croniche. Ancora non definiti i meccanismi con i quali l’infezione determina il Long-COVID; crescenti evidenze supportano l’ipotesi di una genesi da danno d’organo diretto causato dal virus, ma potrebbe anche essere coinvolta una risposta immunitaria innata con rilascio di citochine infiammatorie o lo sviluppo di uno stato pro-coagulativo. Neppure sono note le ragioni per cui solo alcuni pazienti sviluppano il Long-COVID; sebbene l’età avanzata, il sesso femminile, l’ospedalizzazione e l’indice di massa corporea sembrino fattori favorenti. Più frequente a seguito di ospedalizzazione, con una apparente correlazione con il numero delle patologie croniche presenti e con la gravità degli interventi richiesti, ma tale associazione rimane tuttavia non ancora definita. Anche i bambini, seppur raramente, possono presentare sintomi persistenti e specifici per l’età.

La terminologia più frequentemente usata per definire le fasi che seguono la malattia acuta da SARS-CoV-2 è: Malattia COVID-19 sintomatica persistente (segni e sintomi attribuibili al COVID-19 di durata compresa tra 4 e 12 settimane dopo l’evento acuto) e Sindrome post-COVID-19 (segni e sintomi che si sono sviluppati durante o dopo un’infezione compatibile con il COVID-19, presenti per più di 12 settimane dopo l’evento acuto e non spiegabili con diagnosi alternative). Il Long-COVID comprende sia la forma sintomatica persistente che la sindrome post-COVID. Purtroppo ancora mancano chiari criteri, condivisi internazionalmente, per definire il Long-COVID. Questo inevitabilmente crea una incertezza nella diagnosi e una ampia variabilità nell’identificazione di questa condizione.
Le manifestazioni cliniche sono molto variabili e non esiste un consenso sulle loro caratteristiche. La grande variabilità di sintomi e segni clinici possono presentarsi sia singolarmente che in diverse combinazioni. Possono essere transitori o intermittenti e possono cambiare la loro natura nel tempo, oppure possono essere costanti. In generale si considera che più grave è stata la malattia acuta, maggiore rischia di essere l’entità dei sintomi nel tempo. Tuttavia può accompagnare anche persone che hanno avuto in fase acuta unicamente sintomi lievi come febbre, tosse e spossatezza. Le manifestazioni sintomatologiche possono essere suddivise in due categorie: manifestazioni generali e manifestazioni organo-specifiche. La frequenza di presentazione di queste manifestazioni non è ancora stata stabilita con certezza.

Le manifestazioni generali più frequenti includono astenia importante e persistente (è il sintomo documentato con maggiore frequenza), anoressia, debolezza muscolare, febbre recidivante, dolori diffusi, mialgie, artralgie, peggioramento della qualità della vita.
Le manifestazioni organo-specifiche si riscontrano con un’ampia gamma di danni a lungo termine su vari organi, compreso il sistema respiratorio, cardiovascolare, nervoso, gastrointestinale, l’apparato otorinolaringoiatrico, la cute, i reni, il sistema ematologico ed endocrino. Le conseguenze respiratorie sono caratterizzate in particolare da dispnea con e senza necessità di utilizzo cronico dell’ossigeno, tosse persistente e diminuzione della capacità di espansione della gabbia toracica. I sintomi cardiovascolari oscillano da senso di oppressione e dolore al petto, a tachicardia e palpitazioni al minimo sforzo, aritmie e variazione della pressione arteriosa. La manifestazione neurologica più frequente è la cefalea, caratterizzata dalla localizzazione bilaterale moderatamente grave, con qualità pulsante o pressante nella regione temporo-parietale, frontale o periorbitale. Le caratteristiche più evidenti sono l’insorgenza improvvisa o graduale, e la scarsa risposta ai comuni analgesici. Gli anziani e le persone con deficit cognitivo o quelli in terapia cronica con i farmaci antipertensivi hanno un rischio aumentato di sviluppare un’encefalopatia post-COVID. Il deterioramento cognitivo, cosiddetto “annebbiamento cerebrale” (brain fog) si manifesta con difficoltà di concentrazione e attenzione, problemi di memoria, difficoltà nelle funzioni esecutive. Tra le manifestazioni del sistema nervoso periferico persistenti dopo la risoluzione di altri sintomi rientrano le neuropatie periferiche e la perdita di gusto e dell’olfatto. Anche la disautonomia è una sindrome che sta recentemente emergendo. Le manifestazioni psichiatriche/psicologiche più frequentemente riportate dai sopravvissuti all’infezione acuta sono il sonno poco riposante e non ristoratore, malessere cronico, depressione del tono dell’umore, ansia, delirium e psicosi. La distanza sociale obbligatoria per COVID-19 è un fattore precipitante che contribuisce all’alta incidenza del delirium nei pazienti, i quali si sentono disperati, isolati, separati dalle famiglie. Alcuni pazienti possono presentare sintomi collegati a disturbo da stress post-traumatico. I sintomi a livello gastrointestinale sono la perdita di appetito, nausea, vomito, dolori addominali, diarrea, dispepsia, reflusso gastroesofageo, eruttazione, distensione addominale. Diversi studi stanno valutando le conseguenze della sindrome del colon irritabile post-infettivo. La persistente disfunzione dell’apparato otorinolaringoiatrico si manifesta con disturbi di olfatto, quali iposmia o parosmia, disfunzioni della deglutizione e del gusto, acufeni, otalgia, mal di gola, disfonia. La manifestazioni cutanee più comuni sono l’eritema pernio, le eruzioni papulo-squamose caratterizzate da papule e placche eritemato-squamose, rash morbilliformi ed eruzioni orticaroidi. Per quel che concerne l’alopecia, la forma più comunemente associata è il telogen effluvium, più comunemente inquadrabile come una perdita di capelli autolimitante e acuta, con durata inferiore a sei mesi. Riguardo alle patologie immunomediate con manifestazioni dermatologiche, sono stati descritti casi di slatentizzazione di forme clinicamente mute e di riacutizzazione di psoriasi e alopecia areata. Relativamente alle manifestazioni ematologiche, la letteratura riporta la malattia tromboembolica venosa. Alcuni pazienti dimessi senza una terapia profilattica antitrombotica hanno sviluppato embolia polmonare segmentaria, trombi intracardiaci, fistole artero-venose trombotiche, ictus ischemico. Il danno renale si manifesta con una riduzione del tasso di filtrazione glomerulare verificatasi, a distanza di tempo, anche in pazienti con una funzione renale normale durante l’infezione acuta. Le manifestazioni endocrine più frequentemente descritte sono chetoacidosi diabetica di nuova insorgenza (senza una diagnosi precedente di diabete mellito) e la tiroidite subacuta con tireotossicosi clinicamente manifesta.

Il quadro clinico nei bambini, sebbene con minore probabilità di sviluppare una malattia grave nella fase acuta, soprattutto quelli sotto agli 11 anni, può comunque presentare in casi in numero limitato una condizione infiammatoria multisistemica nota come MIS-C (Multisystem Inflammatory Syndrome in Children), tale da richiedere un approccio multidisciplinare tempestivo, finalizzato alla rapida impostazione del trattamento che, ad oggi, si è dimostrato efficace nel prevenire la possibile evoluzione verso un quadro di insufficienza multiorgano e shock. A differenza del Long-COVID, la MISC, pur presentandosi normalmente tra le 2 e le 6 settimane successive all’infezione acuta, presenta una sintomatologia e una classificazione ben determinati e sembra riconoscere dei meccanismi ben definiti. Sebbene fino ad ora descritti dai pochi studi effettuati e che possono comparire in tempi differenti e tra loro diversamente associati, i sintomi caratterizzanti sono: febbre; disturbi gastrointestinali; nausea; affaticamento persistente; mal di gola; manifestazioni cutanee; cefalea; artromialgie; astenia; cambiamenti del tono dell’umore; disturbo del sonno; difficoltà di concentrazione; vertigini; palpitazioni; sensazione di fame d’aria; disfunzioni cognitive. Va sottolineato che tale sintomatologia potrebbe anche essere dovuta alle conseguenze indirette del COVID-19 nel lungo periodo, fra cui l’isolamento sociale e le ricadute socioeconomiche della pandemia sulle famiglie. Infatti la salute dei bambini può risultare profondamente influenzata da modifiche delle condizioni di vita, del reddito familiare, disoccupazione, problemi di istruzione e di accesso ai servizi sanitari, con conseguente maggior rischio di abbandono e violenza domestica.

Il quadro clinico negli anziani. Gli anziani presentano il Long-COVID con una frequenza superiore rispetto alla popolazione giovane. Fino all’80% riferisce la persistenza di almeno un sintomo, in particolare astenia, dispnea, dolore articolare e tosse. Questa elevata prevalenza negli anziani può essere legata alla ridotta riserva dello stato funzionale e alla elevata prevalenza di fragilità, cui consegue una ridotta capacità di recupero dalle situazioni di stress. La conseguenza di questi fenomeni è spesso il peggioramento dello stato funzionale e lo sviluppo di disabilità. Speciale attenzione va dedicata all’insorgenza di disturbi neurodegenerativi, psichiatrici e di deterioramento cognitivo . Dati indicano che, rispetto ad altri eventi clinici acuti, durante i primi 90 giorni dopo una diagnosi di COVID-19, la probabilità di sviluppare demenza è aumentata e il rischio di demenza è stimato intorno al 2% tra i pazienti con più di 65 anni. Uno stato di malnutrizione è stato osservato nel 26-45% dei pazienti e gli anziani sono particolarmente a rischio per questa condizione e per le conseguenze ad essa associate, quali atrofia muscolare, sarcopenia e fragilità.

Quanto è frequente il Long-COVID? Una stima precisa è difficile a causa della variabilità di metodi, definizione e popolazioni studiate. Secondo un recente documento riassuntivo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità un quarto dei soggetti con COVID-19 manifesta sintomi persistenti a distanza di 4-5 settimane dal riscontro della positività. La frequenza di identificazione delle alterazioni è fortemente influenzata dall’entità dell’approfondimento strumentale. La varietà dei sintomi e degli approcci diagnostici ha portato a grande ampiezza delle stime, ma non sempre la qualità degli studi è risultata elevata, per limitata validità esterna, mancanza di gruppi di controllo, e variabilità delle metodologie impiegate. Infine, nonostante la diffusione dell’infezione, solo pochi studi hanno interessato un campione consistente. Lo studio più ampio è stato svolto nel Regno Unito dall’Office for National Statistics su un campione di oltre 20.000 persone, ha mostrato una frequenza di sintomi del 13% oltre le 12 settimane post-infezione, con un rischio maggiore nelle donne rispetto agli uomini (14,7% vs. 12,7%) e più alta nel gruppo di età 25-34 (18,2%). D’altronde in un altro studio svolto sempre nel Regno Unito su oltre 4.000 soggetti (COVID Symptom Study), la frequenza è risultata più bassa, pari al 13% a 4 settimane, del 4,5% oltre le 8 settimane e del 2,3% oltre le 12 settimane. In entrambi gli studi comunque il Long-COVID si manifestava con astenia, cefalea, dispnea e anosmia, e il rischio aumentava per i soggetti con un alto indice di massa corporea e per il genere femminile. In uno studio osservazionale svolto negli USA su pazienti dimessi da 38 ospedali, la frequenza di sintomi a 60 giorni interessava circa il 30% dei 488 soggetti, con dispnea come sintomo più frequente, seguito da tosse e alterazioni del gusto e/o dell’olfatto. Altri studi di più piccole dimensioni svolti in USA, Svizzera, Olanda, Belgio, Canada, Francia e Regno Unito hanno mostrato frequenze più alte, soprattutto per pazienti che avevano avuto una precedente ospedalizzazione. In tutti questi studi dispnea e astenia risultavano i sintomi più frequenti. Uno studio effettuato in Italia su 143 pazienti che erano stati ospedalizzati e che sono stati valutati 2 mesi dopo la prima insorgenza dei sintomi ha rilevato che solo il 13% dei pazienti era completamente asintomatico mentre il 32% riferiva 1 o 2 sintomi e il 55% aveva 3 o più sintomi. Anche in uno studio svolto in Cina su circa 1700 pazienti precedentemente ospedalizzati, la frequenza di sintomi a sei mesi è risultata molto elevata, 76% dei pazienti con almeno un sintomo, con segni residui polmonari presenti in oltre la metà dei casi. Recenti dati indicano tuttavia una frequente persistenza di sintomi anche nei bambini affetti da COVID19, con importante impatto sulle attività quotidiane e sul livello di attività fisica.
Nel rapporto dell’ISS, alle informazioni qui sopra riportate abbastanza fedelmente, seguono i “Principi di gestione e assistenza al Long-COVID”. Dal quale emergono indicazioni “tecniche” maggiormente indirizzate al personale medico e paramedico. Quali le metodologie di Identificazione del paziente, di valutazione multidimensionale, di approccio multidisciplinare, di assistenza nelle cure primarie (con classi di rischio, valutazione sintomi sospetti, pianificazione del percorso assistenziale), di coinvolgimento del paziente e autogestione, di gestione dei bambini (informazione, monitoraggio, accesso alle cure). Chiudendo poi con esempi di gestione e intervento locali e regionali, ed elementi essenziali di monitoraggio, codifica e ricerca.
Prima di chiudere, vogliamo porre l’attenzione ad uno di questi paragrafi che a nostro avviso appare cruciale per il presente e ancora di più per il futuro, ovvero l’argomento del “Coinvolgimento del paziente e dell’Autogestione”. Riportiamo per intero qui sotto quanto scritto al proposito nel rapporto e invitiamo tutti coloro che soffrono di sintomi persistenti, oppure coloro che assistono persone che ne soffrono, di leggere bene questa tabella.


Inoltre raccomandiamo a tutti di leggere il rapporto a questo link https://www.iss.it/documents/20126/0/Rapporto+ISS+COVID-19+15_2021.pdf/a97f5be0-983b-efaa-2638-3cafc8380296?t=1625124332301
Di leggere le informazioni sulla guida del NICE (National Institute for Health and Care Excellence) sul self-management del Long-COVID qui https://www.nice.org.uk/guidance/ng188 e scaricare poi la stessa guida qui https://www.nice.org.uk/guidance/ng188/resources/covid19-rapid-guideline-managing-the-longterm-effects-of-covid19-pdf-51035515742 (purtroppo è solo in inglese; sebbene destinata ai professionisti della Sanità, sarebbe secondo noi opportuno che l’ISS la traducesse e la mettesse a disposizione di tutti, se non già fatto e disponibile, in quanto noi non siamo riusciti a trovare una versione tradotta in italiano)